“Non uccidere”. (Esodo 20:13).
Questo comandamento ricorda il carattere sacro e inviolabile
della vita in tutte le sue forme. Il valore assoluto della vita umana procede
dalla dimensione dell’eternità che Dio gli ha conferito. Quando Dio ci ha
creati ci ha dato valore, scopo, sentimenti e una trascendenza che valica i
limiti della stessa esistenza, per cui ogni attentato contro la vita, odio,
tortura o indifferenza, rappresenta un attentato contro l’essere umano e il Suo
Creatore.
Qualcuno potrebbe pensare che in fondo non ha mai ucciso “letteralmente”
nessuno nella vita, ma Gesù va molto più in profondità quando condanna ogni
forma di aggressione, compresa quella “verbale”, che mina l’integrità dell’altro
(Matteo 5:21-26).
Ed è proprio su quest’ultima forma di aggressione, quella
verbale, che voglio concentrarmi di più, perché credo sia quella più comune,
quella di cui siamo più volte artefici, quella che ci porta ad uccidere l’altro
molto più spesso di quanto non crediamo. L'aspetto relazionale è molto importante nel commentare questo comandamento.
L’esistenza è diventata una lotta continua per sopravvivere,
nella quale prevale la legge del più forte. Guadagnare, trionfare, sedurre,
dominare, conseguire il potere. In questo clima di sfiducia è facile vedere
nell’altro un ostacolo, qualcuno con cui competere e da "fare fuori". Temiamo che possa danneggiarci, superarci, approfittare
della nostra debolezza, infangare la nostra immagine. Adottiamo allora un
meccanismo di difesa che consiste nell’attacco, nella critica, nell’essere
aggressivi e ostili. Crediamo che la soluzione sia passare continuamente
attraverso il “conflitto”. Certo, “aggregare contro” e più facile che “aggregare
per”: nel secondo caso ci vuole più impegno, ci vuole anche saper rinunciare,
ci vuole la volontà di cambiare, l’umiltà di accettare anche la sconfitta, ci
vogliono idee; nel primo caso invece è sufficiente distruggere l’altro e prevaricare
su di lui.
Quando sentiamo che stiamo perdendo il terreno da sotto i
piedi allora dichiariamo guerra. Questo fa nascere in molti l’idea di adottare
un comportamento aggressivo (il più delle volte detto “franco”), credendo che
sia più autentico dell’usare gentilezza, la quale viene vista come una scelta
ipocrita.
Una frase che molti usano spesso è: “Dico quello che penso”,
io “Dico le cose in faccia”. Chi utilizza espressioni di questo tipo si
definisce “vero” e assegna alle persone garbate, che magari mantengono l’autocontrollo
e che stanno attente alla sensibilità altrui l’appellativo di “falso”. Basta guardare
un reality show per rendersi conto di quanto questa cultura sia diffusa, e per
molti versi, dominante.
Nell’alibi del dire ciò che si pensa, sovente (spesso) si “uccide” l’altro,
perché dietro questo si nascondono scarso rispetto verso gli altri,
presunzione, aggressività, chiusura mentale spacciata per veridicità e
sicurezza di sé. Tutto questo è più che altro esibizionismo o
dipendenza dalle proprie emozioni negative che prendono il sopravvento.
Un atteggiamento che rispetti il comandamento “non uccidere”
non deve essere improntato sul “dico quello che penso”. Ci si illude che le
relazioni possano evolvere nel loro spessore ispirandosi a questa retorica, ma
si tratta di illusioni effimere.
Davvero c’è chi ritiene di pensare, per definizione, sempre e
solo cose ragionevoli, utili, interessanti e degne di condivisione? Non sarebbe
suggeribile, invece, concentrarsi sul pensare a ciò che si dice? Non è forse
più idoneo sottomettersi a Dio e imparare a discernere i propri pensieri degni
di condivisione da quelli sciocchi e distruttivi?
“Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto,
parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a
quelli che ascoltano” (Efesini 4:29).
Ma alle parole cattive aggiungo che nesun pensiero malvagio prenda il sopravvento nella vostra mente, nessuno sguardo di critica, nessuno sguardo di provocazione sensuale che distrugge spesso l'armonia tra le coppie, nella propria e nella coppia altrui. Tutti questi atteggiamenti "uccidono" perchè feriscono le emozioni altrui. Chiediamoci sempre
fin dove possiamo arrivare, in questa o quella specifica situazione, nel
condividere le nostre emozioni e opinioni in modo da promuovere la qualità
della relazione con noi stessi e con gli altri.
Bisogna imparare
a “parlare” anche ai propri pensieri e dir loro, quando è il caso: “mi spiace
ma non ti condivido”.
Sicuramente “uccide”
chi schiavo di un atteggiamento egocentrico, rovescia addosso agli altri tutte
le proprie turbe e i propri pensieri, anche quelli più sconvenienti. Ha rispetto della vita altrui invece chi cerca di
rispettare gli altri controllando la propria invadenza.
Per cui, sicura che tutti abbiamo peccato in questo senso, chiediamo perdono a Dio per i nostri atteggiamenti sbagliati, chiediamo perdono alle persone che abbiamo ferito e decidiamo di abbandonare completamente questo peccato. Il chiedere "perdono" non significa che alla prima occasione torno ad avere l'atteggiamento di prima, ma il vero pentimento implica un cambio totale di direzione, di modi di fare, di modo di parlare, di atteggiamento interiore ed esteriore, assomigliando nella purezza al nostro Gesù.
Quanto sono
preziose le parole pronunciate al momento opportuno! Le parole hanno il potere
di distruggere o di creare, così come anche i pensieri e gli sguardi. Scegli oggi di imparare da Gesù e crea la vita!
Dio benedica te che leggi e coloro con i quali vorrai condividere questo prezioso messaggio.

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